L’ITALIA NON È UN PAESE PER DRAMMATURGHI
Questo articolo è uscito su Europa.
Uno dei tre quattro libri italiani più belli usciti negli ultimi due anni è Il ritorno della madre di Lucia Calamaro, costa venti euro e l’ha pubblicato Editoria e Spettacolo. Sicuramente non l’avete letto, ma non è colpa vostra. L’editore fa quello che può, le librerie ne hanno ordinate al massimo una copia scomparsa nel giro di un mese, sulla stampa praticamente nessuno ne ha parlato. Eppure questo libro è un capolavoro: la raccolta dei suoi testi teatrali principali Tumore, Magick e quell’Origine del mondo la cui messa in scena le ha regalato tre premi Ubu 2013. Un uso virtuosistico di una lingua cerebrale, una narrazione beckettiana in cui all’immobilismo scenico fa da contrappunto la verbigerazione: il caso della Calamaro è la punta inferiore di un iceberg rappresentato dalla scena drammaturgica italiana.
Uno può mettere in fila nomi tipo Letizia Russo, Angelo Longoni, Armando Pirozzi, Stefano Massini, Michele Santeramo, Magdalena Barile, Tino Caspanello, Gianmaria Cervo, Spiro Scimone, Antonio Tarantino, Sergio Pierattini, Fausto Paravidino, Saverio La Ruina…, per citare i primi che vengono in mente, e si ritrova a articolare e spezzettare la domanda su Calamaro: perché i giornali non recensiscono i testi teatrali contemporanei? perché le librerie non li accolgono? perché gli editori non li pubblicano? perché i critici di letteratura non li conoscono? perché i teatri non li producono? perché i registi non li scelgono? perché gli scrittori italiani non scrivono per il teatro? E così via, in un domino di interrogativi che porta fino a chiederci: ma gli spettatori e i lettori sono interessati alla drammaturgia contemporanea in generale? E se la risposta è no, perché?
Partiamo da noi, partiamo dalla fine. La prima risposta risale alla nostra formazione: a scuola chiunque di noi ha letto e studiato testi di Sofocle, Machiavelli, Goldoni e Pirandello, eppure magari quello stesso chiunque potrebbe essere andato teatro tre volte in vita sua, e sicuramente non ha idea – a meno di non aver avuto un professore singolare – di cosa vuol dire mettere in scena quei testi, cosa vuol dire la scrittura drammaturgica. E anche all’università, le centinaia di migliaia di persone che si sono negli anni laureate in discipline dello spettacolo e hanno passato ore e ore a studiare la poetica del tale autore e hanno preso 30 e lode agli esami di Letteratura Teatrale, sono capaci di delineare confronti meravigliosi tra l’immaginario scespiriano e quello di Molière, eppure spesso non conoscono come funziona il meccanismo della costruzione scenica. Perché? Li vogliamo formare i docenti a tutto questo?
Allo stesso modo è da ripensare la formazione dello spettatore. Una delle differenze tra l’andare a teatro a Londra e l’andare a teatro a Milano o a Roma è che nel mondo anglosassone è normale prima di entrare in sala comprarsi il testo nel foyer, seguire la scena con il testo sottomano, rileggerselo a casa. Quante volte vi è capitata una cosa del genere in Italia?
Quello stesso spettatore, uno potrebbe dire, il testo magari se lo andrà a comprare il giorno dopo in libreria. Ma questo non accadrà. I libri di teatro nelle piccole librerie non ci sono, se non una decina di volumi di Shakespeare e Pirandello; e nelle grandi librerie sono spesso nascosti nel settore più oscuro, spesso compressi in una lotta per la sopravvivenza con quelli di poesia. I librai non li ordinano quasi non si trattasse di libri. Le case editrici come Ubulibri o Editoria e Spettacolo sono rarità. E i volumi pubblicati da Einaudi vivono un destino appena migliore: poche copie stampate e rese velocemente, nonostante la scelta einaudiana si sia fatta negli anni sempre meno rischiosa – con autori che vengono pubblicati solo quando sono praticamente diventati dei classici, che si tratti di Tom Stoppard o di Sarah Kane (l’eccezione è il recentissimo Lehman Brothers di Stefano Massini).
Prendiamo una storia editoriale emblematica. Quando qualche anno Monica Capuani riuscì a aprire, anche grazie a Pietro D’Amore, la Reading Theatre, e finì dopo diciassette titoli per soccombere per l’ottusità di questo mercato, fece conoscere in Italia il John Guare di Sei gradi di separazione, il Brian Friel di Molly Sweeney o il Dennis Kelly di After the end. Era naturale che la Reading Theatre non ce la facesse? Stiamo parlando ancora autori di nicchia? Beh, fino a un certo punto, se pensiamo, per dire, che Kelly in Inghilterra ha appena firmato uno dei musical per ragazzi più di successo degli ultimi tempi (Mathilda) e una serie tv di culto come Utopia.
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Uno dei tre quattro libri italiani più belli usciti negli ultimi due anni è Il ritorno della madre di Lucia Calamaro, costa venti euro e l’ha pubblicato Editoria e Spettacolo. Sicuramente non l’avete letto, ma non è colpa vostra. L’editore fa quello che può, le librerie ne hanno ordinate al massimo una copia scomparsa nel giro di un mese, sulla stampa praticamente nessuno ne ha parlato. Eppure questo libro è un capolavoro: la raccolta dei suoi testi teatrali principali Tumore, Magick e quell’Origine del mondo la cui messa in scena le ha regalato tre premi Ubu 2013. Un uso virtuosistico di una lingua cerebrale, una narrazione beckettiana in cui all’immobilismo scenico fa da contrappunto la verbigerazione: il caso della Calamaro è la punta inferiore di un iceberg rappresentato dalla scena drammaturgica italiana.
Uno può mettere in fila nomi tipo Letizia Russo, Angelo Longoni, Armando Pirozzi, Stefano Massini, Michele Santeramo, Magdalena Barile, Tino Caspanello, Gianmaria Cervo, Spiro Scimone, Antonio Tarantino, Sergio Pierattini, Fausto Paravidino, Saverio La Ruina…, per citare i primi che vengono in mente, e si ritrova a articolare e spezzettare la domanda su Calamaro: perché i giornali non recensiscono i testi teatrali contemporanei? perché le librerie non li accolgono? perché gli editori non li pubblicano? perché i critici di letteratura non li conoscono? perché i teatri non li producono? perché i registi non li scelgono? perché gli scrittori italiani non scrivono per il teatro? E così via, in un domino di interrogativi che porta fino a chiederci: ma gli spettatori e i lettori sono interessati alla drammaturgia contemporanea in generale? E se la risposta è no, perché?
Partiamo da noi, partiamo dalla fine. La prima risposta risale alla nostra formazione: a scuola chiunque di noi ha letto e studiato testi di Sofocle, Machiavelli, Goldoni e Pirandello, eppure magari quello stesso chiunque potrebbe essere andato teatro tre volte in vita sua, e sicuramente non ha idea – a meno di non aver avuto un professore singolare – di cosa vuol dire mettere in scena quei testi, cosa vuol dire la scrittura drammaturgica. E anche all’università, le centinaia di migliaia di persone che si sono negli anni laureate in discipline dello spettacolo e hanno passato ore e ore a studiare la poetica del tale autore e hanno preso 30 e lode agli esami di Letteratura Teatrale, sono capaci di delineare confronti meravigliosi tra l’immaginario scespiriano e quello di Molière, eppure spesso non conoscono come funziona il meccanismo della costruzione scenica. Perché? Li vogliamo formare i docenti a tutto questo?
Allo stesso modo è da ripensare la formazione dello spettatore. Una delle differenze tra l’andare a teatro a Londra e l’andare a teatro a Milano o a Roma è che nel mondo anglosassone è normale prima di entrare in sala comprarsi il testo nel foyer, seguire la scena con il testo sottomano, rileggerselo a casa. Quante volte vi è capitata una cosa del genere in Italia?
Quello stesso spettatore, uno potrebbe dire, il testo magari se lo andrà a comprare il giorno dopo in libreria. Ma questo non accadrà. I libri di teatro nelle piccole librerie non ci sono, se non una decina di volumi di Shakespeare e Pirandello; e nelle grandi librerie sono spesso nascosti nel settore più oscuro, spesso compressi in una lotta per la sopravvivenza con quelli di poesia. I librai non li ordinano quasi non si trattasse di libri. Le case editrici come Ubulibri o Editoria e Spettacolo sono rarità. E i volumi pubblicati da Einaudi vivono un destino appena migliore: poche copie stampate e rese velocemente, nonostante la scelta einaudiana si sia fatta negli anni sempre meno rischiosa – con autori che vengono pubblicati solo quando sono praticamente diventati dei classici, che si tratti di Tom Stoppard o di Sarah Kane (l’eccezione è il recentissimo Lehman Brothers di Stefano Massini).
Prendiamo una storia editoriale emblematica. Quando qualche anno Monica Capuani riuscì a aprire, anche grazie a Pietro D’Amore, la Reading Theatre, e finì dopo diciassette titoli per soccombere per l’ottusità di questo mercato, fece conoscere in Italia il John Guare di Sei gradi di separazione, il Brian Friel di Molly Sweeney o il Dennis Kelly di After the end. Era naturale che la Reading Theatre non ce la facesse? Stiamo parlando ancora autori di nicchia? Beh, fino a un certo punto, se pensiamo, per dire, che Kelly in Inghilterra ha appena firmato uno dei musical per ragazzi più di successo degli ultimi tempi (Mathilda) e una serie tv di culto come Utopia.